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Crosby & Nash: Cowboys Of Dreams (JAM, 2004)

Cover Story di Ezio Guaitamacchi da JAM (www.jamonline.it) n.107 Settembre 2004


Nei primi anni 70, finita l’avventura di CSN&Y (almeno temporaneamente, perché le reunion, nel corso dei decenni, sono sempre state una piacevole sorpresa), quando i quattro cavalieri della West Coast presero le proprie "strade a senso unico", nessuno si sarebbe aspettato un disco a nome Crosby & Nash. Era il 1972, e vedere insieme l’anima intellettuale e sperimentale del quartetto con quella considerata da sempre la più ‘leggerina’ e commerciale, stupì tutti. Ma lo stupore durò solo fino a quando la puntina toccò i magici solchi di Southbound Train e di altre gemme sparse in quel disco: l’accoppiata funzionava a meraviglia. Seguirono altri due dischi in coppia (Wind On The Water del ‘74 e Whistling Down The Wire di due anni dopo, più un live), poi Crosby & Nash ripreso a marciare felicemente con l’amico/nemico Stills e talvolta anche con Young. Oggi, ventotto anni dopo l’ultimo album in studio, la mai dimenticata sigla Crosby & Nash torna su di un disco, un bellissimo doppio cd che i due hanno presentato lo scorso luglio insieme all’amico Stills durante un concerto a Boston cui eravamo presenti. Nella bella città del New England li abbiamo anche intervistati. Ecco il racconto completo più un piccolo tributo a due autentici "cowboy dei sogni", come cantava un tempo Graham Nash...

IL CUORE DELL’AMERICA
La vista dall’aereo è davvero mozzafiato; ammirata dall’alto, infatti, la frastagliata baia di Boston mostra tutto il suo fascino d’antàn. Qui si è davvero nel cuore della storia americana. Basti pensare che, solo poche miglia a sud (a Cape Cod), alla fine del 1620, la Mayflower gettava definitivamente le sue ancore. Sono stati infatti i Pilgrim Fathers a fondare Boston, chiamandola così in onore dell’omonima cittadina inglese del Lincolnshire dalla quale si erano imbarcati per la loro perigliosa traversata atlantica. Da allora, Boston è un’istituzione. Indiscussa roccaforte della famiglia Kennedy e della tradizione democratica, persino in campo sportivo la città del Massachussets ha saputo distinguersi ospitando uno dei team di basket più blasonati del mondo (i leggendari Celtics) e la più amata squadra di baseball d’America (gli altrettanto mitici Red Sox). Tranquilla, elegante e un po’ snob, la capitale del New England non è soltanto uno dei più antichi e storici agglomerati urbani dell’Unione. Ne costituisce, di fatto, il principale polo accademico smentendo in tal modo ciò che affermava seppur ironicamente il manager della "immaginaria" rock band Spinal Tap quando, nel corso dello spiritoso film, commentava la cancellazione di una data del gruppo con la lapidaria sentenza: "Non facciamo il concerto di Boston? E chi se ne frega: non è nient’altro che una college town". Sbagliato: Boston non è "una" ma "la" college town d’America. Qui, o meglio nella città gemella di Cambridge, hanno sede due delle più celebri e stimate università degli Usa: Harvard e il Massachussets Institute Of Technology (universalmente noto come M.I.T.). Qui ci sono dozzine di prestigiose scuole e istituti di rivelanza nazionale o internazionale che hanno avuto allievi famosi: Joan Baez ha frequentato corsi di teatro alla Boston University, Gram Parsons è stato studente a Harvard, Tracy Chapman alla Tuffs e Bonnie Raitt alla Radcliffe. Senza dimenticare il Berklee College Of Music, la più rinomata scuola di musica del mondo, che tra i suoi diplomati annovera Quincy Jones, Donald Fagen, Steve Vai, Aimee Mann, Melissa Etheridge, Bruce Hornsby, Pat Metheny, Juliana Hatfield. Anche per questo, Boston può vantare una solida tradizione musicale. Che risale ai tempi gloriosi del Club 47 di Harvard Square, una coffeehouse che ha aperto i battenti nel 1958 ospitando, ancor prima che al Greenwich Village di New York, alcune delle voci più significative del folk revival: Tom Rush, Joan Baez, Phil Ochs e lo stesso Bob Dylan sono stati, in quei giorni, ospiti fissi del locale che oggi si chiama Club Passim ma che ha mantenuto inalterati stile e atmosfera dei Sixties. L’impegno politico dei folksinger del Club 47 facilita il proliferare della scena rock che, inizialmente, deve superare gli ostacoli posti dalla chiesa cattolica (qui potentissima) e dai politici di origine irlandese ad essa collegati. Tanto che uno dei popolarissimi show del dj "Moondog" Alan Freed (colui che dai microfoni della WJW di Cleveland aveva per primo usato il termine "rock’n’roll") viene bloccato così come sono puntualmente boicottati tutti i programmi radio che trasmettono "quella musica sconveniente". A metà anni 60 il nome di Boston rimbalza in tutte i jukebox grazie al brano Dirty Water dei californiani Standells ("Well I love that dirty water / Boston you’re my home…") prima che l’etichetta Mgm provi a lanciare la città del New England come nuova capitale del rock. Ma non sono sufficienti alcuni locali di tendenza come il Boston Tea Party, il Catacomb o lo Psychedelic Supermarket: la Mgm fallisce e Boston sembra scomparire dalle mappe musicali d’America. Salvo tornare prepotentemente a metà anni 70 con il supergruppo omonimo capitanato da Tom Scholtz: More Than A Feeling diventa un tormentone radiofonico ma anche la punta dell’iceberg di un movimento che può contare su nomi come J. Geils Band, The Cars, Jonathan Richman e Modern Lovers. Senza contare i più famosi e apprezzati dell’intero lotto: i formidabili Aerosmith. L’incessante fermento studentesco favorisce, negli anni 80 e 90, l’affermarsi di un’importante scena indie: Pixies, Lemonheads, Come, Buffalo Tom, Throwing Muses, Belly, Sebadoh sono solo alcuni dei nomi associati all’area bostoniana. Nella quale fioriscono anche numerose voci femminili: Jennifer Trynin, Tracy Bonham, Juliana Hatfield, Aimee Mann, Mary Lou Lord. A Boston viene costruita la prima delle House Of Blues di Dan Aykroyd (che apre nel 1992 nei pressi di Harvard Square) senza contare che qui, dai primi anni 70, opera una delle più qualificate distribuzioni discografiche d’America nonché stimatissima etichetta folk/roots/blues/jazz: la Rounder Records. Insomma, Boston e Musica ancora oggi costituiscono un binomio di successo.
L’AMERICA NEL CUORE
Boston è in fibrillazione. Tra pochi giorni si svolgerà la Convention del Partito Democratico e la città sarà invasa da decine di migliaia di delegati e supporter di John Kerry. Le misure di sicurezza sono decuplicate. E, con esse, il traffico. "So già cosa farò la prossima settimana", mi dice un simpatico taxista nero, "me ne vado in ferie, il più lontano possibile da qui". Il Fleet Center, il palazzo dello sport che ospita il raduno politico, è in stato d’assedio. Il prezioso parquet a lisca di pesce (la superficie preferita dalle scarpette milionarie dei Boston Celtics, trapiantata "paro paro" quando lì a fianco è stato raso al suolo il vecchio Boston Garden) è già stato prudenzialmente coperto. E decine di migliaia di palloncini bianchi, rossi e blu, rinchiusi nelle apposite reticelle, sono pronti a volare in aria al momento della proclamazione ufficiale di quello che tutti ormai chiamano "il nuovo JFK". Dalla parte opposta della città, in un’altra venue, il Boston Pavillion, sponsorizzata dal medesimo istituto bancario (Fleet) si sta svolgendo una rassegna di concerti che ospita alcuni grandi nomi della musica americana tra i quali Lyle Lovett, Emmylou Harris, Carole King. Il 22 luglio, sotto quella tensostruttura in riva al mare, nel molo sud, si esibiscono tre icone della West Coast: Crosby Stills & Nash. È la quindicesima data del tour 2004 (iniziato il primo luglio a Prior Lake, Minnesota) che prevede una cinquantina di concerti e che si concluderà il 22 settembre a Woodinville, Washington. Lo show di Boston è stato scelto dalla casa discografica come momento promozionale per la stampa internazionale. Crosby & Nash, infatti, 28 anni dopo l’uscita di Whistling Down The Wire, sono pronti a pubblicare il loro (da tempo annunciato) nuovo lavoro in studio, un album doppio intitolato semplicemente Crosby-Nash. Quando alle 19.30 salgono sul palco del Fleet Pavillion quelli che, ai tempi, qualcuno aveva definito i "Beatles americani", l’emozione è fortissima. L’attacco di Carry On è vibrante e dà subito un’idea di ciò che sarà il concerto: 2 ore e 45 minuti di intenso, energico, pulsante (seppure raffinato) rock’n’roll. Ma fa anche capire l’atteggiamento sincero di questi autentici padri della musica americana il cui attivismo sociale e umanitario, le cui prese di posizione politico/ambientali (spesso rese esplicite nei testi delle loro canzoni) hanno influenzato idee e stili di vita di intere generazioni. "Cari abitanti di Boston", dice Crosby ironizzando (ma non troppo) sull’imminente convention democratica, "non v’invidio per niente. La prossima settimana qui sarà un inferno". E insieme a Nash armonizza su Military Madness, brano che seppur scritto all’epoca della guerra del Vietnam sembra di un’attualità imbarazzante. "Avete mai provato a immaginare", spiega Nash, "che c’è gente che lavora nell’industria bellica? E che, ogni giorno, si reca nel suo stabilimento e lì costruisce delle bombe, oggetti il cui unico scopo è uccidere il maggior numero di persone possibile?". Marrakesh Express e una deliziosa versione di 49 Reasons/Bye Bye alleggeriscono i toni. Che riprendono vigore quando Crosby introduce un nuovo brano, parte del progetto Crosby-Nash. "Dobbiamo fermare l’arroganza, l’incontenibile avidità, la grettezza delle grandi corporation. E la disonestà dei loro manager: la legge deve valere per tutti", dice David prima di attaccare (tra le ovazioni del pubblico) They Want It All, brano-denuncia sulle malefatte della Enron. E, dopo aver sentito due deliziosi nuovi pezzi (Jesus Of Rio, firmato da Nash e Pevar più un brano sincopatissimo di Stills che sembra tratto dal miglior repertorio dei Manassas) c’è ancora tempo per una dichiarazione politica: Nightime For The Generals è implacabile. "Stiamo vivendo tempi cupi", commenta il vecchio Croz, "sapete una cosa? Credo che i giovani americani non se ne rendano conto: non sanno quanta disperazione, quanta povertà, quanta sofferenza ci sia oggi nel mondo. Dovrebbero viaggiare, andare in India, in Sud America o in Africa per comprendere la reale situazione di miliardi di esseri umani e per capire quanto loro, al contrario, sono fortunati. E al tempo stesso, razionalizzare che ci sono culture diverse da quelle occidentali ma non per questo meno giuste, meno democratiche. Perché, come dice giustamente qualcuno, quattro quinti del mondo non possono essersi sbagliati". Un’imprevedibile versione di Déja Vu e una spumeggiante Love The One You’re With chiudono la prima parte di uno show trascinante. Stills, pur se incazzoso (manda al diavolo un paio di volte il suo guitar assistant), è in formissima: è lui che si fa carico dei principali solo. Lo spalleggiano, più che degnamente, Michael Finnigan (all’Hammond B3) e soprattutto Jeff Pevar, talento formidabile che Crosby ricorda di aver conosciuto quando suonava insieme a Marc Cohn. "Ero al Blossom Music Center, nei dintorni di Cleveland. Jeff ha voluto che salissi sul palco: da lì è nata la nostra amicizia che si è poco dopo trasformata in proficua collaborazione professionale. È un musicista davvero formidabile. Sia lui che mio figlio, James, hanno dato nuova energia alla nostra band". Band che, oltre ai musicisti citati, vede la presenza di Joe Vitale (batteria) e di David Michael Santos (basso). Il segreto della forma di Stills sta forse davvero nell’interazione con Pevar. Me lo conferma Nash quando dice che "i due dialogano a meraviglia. Sembra che entrambi ricevano una carica di energia che li infiamma lanciandoli in solo e interplay favolosi: sono i loro duetti l’attrazione più spettacolare di questo tour". Dopo un quarto d’ora di intervallo, il concerto riprende con una fantastica Southern Cross, guidata proprio da uno Stills acclamatissimo. Vederlo così tonico fa piacere ("È in forma e si sta divertendo molto", dice Graham Nash, "ha diverse canzoni pronte; dovrebbe essere imminente l’uscita di un suo nuovo album"). Così come fa piacere ammirare le sue meravigliose chitarre vintage, tra le quali spicca la spettacolare Gretsch White Falcon del 1958 che Stephen utilizza nella sempre fascinosa Helplessly Hoping e nell’imperitura Teach Your Children (che chiude il concerto, come secondo bis). Stills non ha bisogno di dichiarazioni politiche: gli basta il riff di For What It’s Worth (brano epocale nel songbook della canzone di protesta) per avere tutti dalla sua: 5mila persone cantano il pezzo a squarciagola. Le nuove canzoni presentate nella seconda parte (Lay Me Down, Milky Way Tonight e il rock ecologista di Don’t Dig Here) sono eseguite in modo magistrale. Così come altrettanto portentosi sono i tre pezzi conclusivi: Almost Cut My Hair, Dark Star e Wooden Ships. Il tempo di tornare per il bis e subito viene intonata Woodstock, 35 anni esatti dopo il mitico raduno nella fattoria di Max Yasgur. "Joni Mitchell (autrice del pezzo, nda) sta benissimo", dice Graham Nash, "abbiamo partecipato lo scorso novembre a Vancouver alla festa per i suoi primi 60 anni… fuma sempre due pacchetti di sigarette al giorno… ma lei è contenta così". È piuttosto contento anche David Crosby quando lo incontriamo backstage, nell’after show party organizzato alla fine del concerto. David scherza con l’amico Buzz Person (autore di molte delle foto che illustrano questo articolo), che da alcuni anni segue le vicende di CSN&Y da vicino. Mr. Person è un gioviale avvocato californiano che, beato lui, vive nella splendida Newport Beach e non si perde un concerto dei suoi idoli. Come si può vedere nei siti ufficiali del gruppo (www.crosbystillsnash.com oppure www.crosby-nash.com) Buzz è anche uno che ha libero accesso agli studi di registrazione. "Sei stato fortunato", mi dice, "il concerto di stasera è stato davvero bello. E poi, i ‘ragazzi’ hanno cantato benissimo". Ha ragione: seppur supportati in tal senso anche da Raymond, Pevar e Finnigan, CSN sono stati vocalmente impeccabili. Nash, addirittura, ha toccato punte di valore assoluto (come, ad esempio, in Milky Way Tonight che, me lo ha confermato più tardi anche Crosby, è stata davvero da brividi). Nel backstage si conversa amabilmente con Pevar, Raymond e Finnigan mentre Stills e Nash restano nei camerini. "Stephen non esce mai", mi confida Buzz, "Nash invece stasera è molto stanco. Di solito è sempre il primo a intrattenere la gente nel dopo-concerto". Soltanto poche ore dopo, infatti, Graham Nash incontra un pubblico speciale.

OCCHI OBIETTIVI
"Sono stato fotografo ancor prima di diventare musicista", dice a una cinquantina di curiosi intervenuti il giorno dopo il concerto al Borders nei pressi di Downtown Crossing, in pieno centro di Boston. Il fornitissimo bookstore presenta infatti Eye To Eye, il volume fotografico che Nash ha realizzato poco tempo fa. Introdotto da un dj di una radio locale, Graham fa il suo ingresso nello spazio che Borders dedica agli incontri tra autori e pubblico. Camicia e jeans neri, fisico asciutto e tonico, Nash porta benissimo i suoi 62 anni. I capelli, tagliati corti, e i baffi curatissimi sono, da qualche anno ormai, candidi come la neve ma non tolgono fascino al personaggio. Il leggero, ma pur sempre presente, accento inglese (unito alle naturali doti di comunicatore) costituisce ulteriore tocco charmant. Il libro è testimonianza di 50 anni di vita raccontati attraverso un hobby appassionante. Ricorda Nash: "Provengo da una famiglia povera di Manchester. All’epoca, la città era zona di bombardamenti e le donne incinte dovevano essere evacuate; per questo sono nato a Blackpool. Quando avevo 11 anni, mio padre mi ha portato insieme a mia sorella allo zoo. È stato lì che ho fatto le mie prime fotografie. Poi, papà mi ha mostrato il processo di sviluppo in camera oscura. Sono rimasto stregato. Mi è sembrato il trucco di un mago. A 13 anni uno dei miei migliori amici è andato in Germania in bicicletta: voleva andare a trovare Elvis che faceva il militare. Per il mio compleanno desideravo anch’io una bici ma mia madre mi disse che non aveva i soldi per comprarla. Mi ha fatto una proposta: se lo avessi voluto, al posto della bici mi avrebbe regalato una chitarra. Ho accettato e, di lì a poco, il rock’n’roll ha travolto la mia vita. Ma la fotografia è rimasta come grande passione. Direi che è cresciuta in parallelo con la musica". Nash è molto orgoglioso del libro, un tomo consistente e anche piuttosto costoso, che contiene ovviamente parecchie foto di amici famosi (una bellissima, giovane Joni Mitchell, svariati Crosby, Stills & Young, un grintoso Dennis Hopper, ecc.). Tutti gli scatti sono in bianco e nero, "anche se io li ho sempre visti a colori", puntualizza curiosamente Nash. Che ci tiene a sottolineare che "per realizzare il tutto ho dovuto selezionare 25mila scatti. So che sarà l’unico libro fotografico della mia vita. Per questo ho voluto scegliere personalmente stampatore e fotolitista. Sono andato in Germania, a Francoforte, da un tipo pazzoide ma simpaticissimo, da tutti, considerato il migliore in questo campo". Rilassato e disponibile, Graham accetta di rispondere ad alcune curiosità del pubblico. Un fan degli Hollies gli chiede notizie di Allan Clarke, grande amico di Nash e con lui fondatore del gruppo beat inglese.
"Allan ha avuto problemi con la gola e ha lasciato la band. Ma ora sta bene". Non può esimersi dalle valutazioni politiche, specie quando viene sollecitato a commentare le dichiarazioni di Linda Ronstadt a Las Vegas in favore di Michael Moore che le sono costate fischi di parte del pubblico e il rimprovero dei proprietari dell’Alladin, l’hotel/casino che ospitava il concerto.
"Sì, ho visto Farenheit 9/11", spiega Nash, "ero presente all’anteprima di L.A. con Neil Young. È bello: ma è un film. Il problema non è tanto stare con Kerry o contro Bush. È il mondo occidentale che sta andando nel verso sbagliato. L’America è odiata e deve rendersene conto. Il mondo è purtroppo sotto il controllo dei potenti (corporation e governi occidentali); eppure anche loro contro il terrorismo hanno perso. Gli Stati Uniti non sono più la Terra delle Opportunità. Siamo controllati. I nostri voti sono manipolati".

GLI OLIVER & HARDY DEL ROCK
Finito l’incontro a Borders, l’appuntamento successivo è fissato per il primo pomeriggio nell’albergo che ospita gli artisti. Lì, in un’apposita stanzetta, sono previste le interviste "face to face". Mentre sono in attesa di salire, nella hall entra una figura conosciuta: è Little Richard, qui a Boston per un concerto. "He’s a living legend", mi sussurra un cameriere che, scopro dopo, ha origini italiane. Anche Crosby e Nash sono leggende viventi. Quasi lo erano già a fine anni 60 quando Mama Cass (cui hanno voluto dedicare il nuovo lavoro) decise che i due avrebbero dovuto conoscersi. Ai bordi della sua piscina, nel Laurel Canyon, la leggenda vuole che Crosby, Stills & Nash armonizzassero su You Don’t Have To Cry. Quando mostro loro le foto che l’amico Maurizio Beretta fece nell’agosto del 1976 a Stanford (vedi box) nel corso del tour di promozione di Whistling Down The Wire, Croz e Nash scambiano battute al fulmicotone. Spiritosi e di buonissimo umore, iniziano una piacevole conversazione che tocca numerosi temi. "Sia io che Nash", confessa Crosby, "stiamo vivendo periodi felici con le rispettive famiglie. Stiamo davvero bene. Nel mio caso, poi, non so quante altre chance professionali mi rimangono. Per questo cerco di sfruttare al meglio le opportunità che ho a disposizione. Sono consapevole del dono artistico che ho ricevuto e della fortuna che ho avuto nel poterlo utilizzare al meglio. Ho anche capito, nel corso degli anni, che è meglio mettere da parte invidia e senso di competizione: alla fine, sono cose che sconti sulla tua pelle. Quando poi, come successo in questa circostanza per l’album con Graham, mi ritrovo in una situazione ideale nella quale non devo cedere a compromessi, sono consapevole che posso e devo dare il meglio di me stesso. Questo è quello che la gente si aspetta: andare oltre le mie stesse capacità artistiche". "È vero", prosegue Nash, "credo che questo atteggiamento debba essere considerato come una forma di rispetto. Rispetto verso se stessi, verso gli altri musicisti coinvolti, verso il pubblico. Anch’io come David ho sentito questo stimolo e lo sento ormai da qualche anno. Ogni volta (e mi è capitato anche per la realizzazione del libro Eye To Eye) penso sia giusto dare il massimo". "Ritengo", chiosa infine Crosby, "che ciascuno di noi sia sulla terra con una finalità precisa. Ormai l’ho capito da diverso tempo: il mio compito è quello di fare buona musica. E il fatto che ancora oggi abbia serie opportunità di farlo mi riempie di gioia. E gioia, orgoglio e gratitudine sono le sensazioni che provo ancora oggi, dopo tanti anni, nel momento della pubblicazione di un nuovo album". 28 anni sono trascorsi dall’ultimo disco di Crosby e Nash. Un sodalizio nato spontaneamente nel 1971, tra due amici da sempre in sintonia come uomini prima ancora che come artisti. "Mi rendo conto che può sembrare ridicolo", spiega Nash, "ma la verità è che siamo sempre stati molto impegnati. In pratica, negli ultimi 25 anni, abbiamo lavorato ininterrottamente con Stills e Young. Il tempo che rimaneva a disposizione è stato dedicato ai lavori solisti o, nel caso di David, anche al progetto CPR. Finalmente, dopo tanti anni, sono tornati tempo e voglia di far qualcosa insieme. Dopo aver concluso l’album Songs For Survivors mi ero ritrovato con parecchie canzoni pronte. Lo stesso è successo a Croz che è da quasi due anni che non pubblica un disco. E così abbiamo deciso che era ora di dare un seguito al duo Crosby-Nash". "Ma non è questa la sola ragione che ci ha fatto optare per un doppio cd", continua Nash, " Originariamente il disco avrebbe dovuto contenere una dozzina di brani. Ma, non appena abbiamo iniziato a registrare, ci siamo resi conto che stavamo vivendo una esperienza speciale, che definirei musicalmente deliziosa. Quasi non volevamo fermarci. Abbiamo messo insieme 20 canzoni, tutte convincenti, tutte (a nostro modo di vedere) altamente significative. Poi, giustamente, qualcuno ci ha detto: basta, dobbiamo dare un termine al lavoro". Artisticamente prolifici, musicalmente dinamici e intellettualmente brillanti, Crosby & Nash stanno vivendo un momento magico. I dischi di CPR, il libro/documentario Stand And Be Counted (Crosby), l’album Songs For Survivors (bellisssimo!), il libro fotografico Eye To Eye (Nash) uniti ai reunion tour con CSN (&Y) e a questo nuovo cd sono testimonianze inconfutabili. "Eppure non è cambiato il nostro modo di fare musica", sottolinea Crosby, " l’idea di scrivere pezzi insieme ad altri autori è qualcosa cui siamo ricorsi anche in passato: se trovi qualcuno con cui dialogare artisticamente, la musica può averne grande giovamento. La vena compositiva ha diverse modalità di espressione. Si può partire da una strofa che magari contiene porzioni di testo, da un semplice verso, da un accenno di melodia, a volte persino da una cellula ritmica e armonica. Ma quello che è successo a noi, nelle registrazioni del nuovo disco, va fuori ogni schema. C’è stata tale interazione tra noi due e gli altri musicisti in studio che le cose si sono evolute in modo costante". "Sempre a proposito dell’ispirazione", prosegue Crosby, "ritengo importante la volontà di scrivere. Per farlo, devi trovare spazi e tempi giusti nella tua vita. È qualcosa che richiede esercizio quotidiano. Che va fissata, su carta o su un registratore, per poter essere poi sviluppata, migliorata, messa a punto. Ma, al tempo stesso, è anche un processo che deve mantenere freschezza, spontaneità espressiva e che non può essere forzato. Non posso sedermi, prendere in mano una bottiglia e decidere di scriverci sopra una canzone… no, non funziona così. La Musa in questo caso è stata particolarmente generosa con noi: ci ha aiutato molto dandoci spunti per le canzoni del disco. Questa è la nostra forza ma anche il nostro limite: cercare di scrivere belle canzoni. Se non abbiamo belle canzoni non possiamo fare dischi alla nostra altezza". "Oltre a ciò", prosegue Nash, "ci siamo ritrovati nella condizione di avere musicisti ai quali non avevi neppure bisogno di dire cosa dovevano fare. A gente come Pevar, Sklar, Kunkel o Raymond non servono i nostri suggerimenti. Sono loro che intervengono con i giusti correttivi; sono loro che, per primi, rispondono a una tua esigenza come quella di aggiungere un verso, togliere una frase, inserire un inciso per variare l’atmosfera. In questo senso, le session di questo disco sono state le più aperte di tutta la mia carriera". "Io vado persino oltre", ci tiene a precisare Crosby, "si è trattato della miglior esperienza in studio della mia vita. È stata semplice, pulita veloce ma anche intensa. E poi: nessuno si è lamentato, non ci sono state tensioni né problemi di ego. Mai c’è stata gente sulla difensiva né atteggiamenti arroganti; insomma, un vero paradiso. Questa atmosfera rilassata credo traspaia dalle tracce del disco". Contenti dell’ultimo lavoro (che li porterà in tour come Crosby & Nash a partire da novembre "anche se non sappiamo ancora quali musicisti saranno con noi"), i due svelano altri progetti futuri. "Uscirà a breve una nuova versione di If I Could Only Remember My Name", dice Crosby, "con un mix 5.1 e una bonus track con la partecipazione di Jerry Garcia". "Penso faremo presto anche un nuovo tour come CSN&Y", aggiunge Nash, "abbiamo tonnellate di materiale fantastico per un cd o un dvd dal vivo. Ma tutto dipende da Neil: qualsiasi cosa riguardi CSN&Y non può prescindere dalla sua volontà". "Mi fa enorme piacere", riflette Nash in conclusione, "sentire persone che ci dicono che la loro vita è migliorata grazie alle nostre canzoni. O che la nostra musica è stata una colonna sonora significativa della loro esistenza. Questo ci gratifica di tanti casini e ci fa dimenticare i momenti più duri, le liti, i problemi. Come diceva David, riuscire a dare il massimo, ogni volta, è già di per sé un’esperienza altamente gratificante. Che diventa addirittura entusiasmante, trasformandosi in forza vitale rigenerante quando il pubblico ti rende tributo". Prima dei saluti un ultimo scambio di battute. "Cosa ne dici di CSN&Y al Colosseo?" mi fa Nash. "Ne dico benissimo", faccio io. "Allora dì al tuo amico Adolfo che se non ci porta in Italia, questa volta lo meno", chiude Crosby. Ok capo, sarà fatto.


In concert
Frost Amphitheater, Stanford University,
California, 7 agosto 1976
di Ezio Guaitamacchi

È stato il mio primo viaggio in America: destinazione California, terra dei sogni (musicali e non). In quei giorni suonavo in un gruppo che era una sorta di tribute band a Crosby Stills Nash & Young. Con noi c’era anche Fabrizio Bentivoglio che, prima di diventare attore, aveva una formidabile passione per la musica della West Coast. Invidiatissimo dagli altri componenti della band (rimasti tutti a Milano, Fabrizio incluso) vengo a sapere che, pochi giorni dopo il mio arrivo a San Francisco, Crosby & Nash avrebbero suonato all’Università di Stanford. Detto fatto: convinco i miei compagni di viaggio a comprare i biglietti e a recarci a Palo Alto, un’ora a sud della Baia, sede del leggendario college californiano. Lì, al centro del magnifico campus di Stanford, c’era il Frost Amphitheater, arena naturale in grado di ospitare una decina di migliaia di spettatori. Agitatissimo all’idea di vedere i miei eroi dal vivo, costringo gli amici a essere sul posto con anticipo fantozziano. Tanto che, al momento del nostro arrivo poco dopo mezzogiorno (è sabato e il concerto è previsto in orario pomeridiano), i cancelli sono ancora chiusi. Quando finalmente riusciamo a entrare, mi reco immediatamente ai piedi del palco, in adorante ammirazione della collezione di chitarre acustiche (Martin, Guild e Gibson) in bella mostra sugli appositi reggistrumento. Dopo un paio d’ore di attesa, entrano i protagonisti. Crosby & Nash sono in tour per promuovere il loro nuovo album, Whistling Down The Wire. Addirittura, Nash indossa la stessa camicia che sfoggia nella foto di copertina del disco. Rilassati, divertenti e ispirati, i due iniziano un concerto vario che, tra intermezzi solisti, pezzi nuovi e vecchi successi, intrattiene il pubblico per oltre tre ore. Al loro fianco, una band stratosferica con Tim Drummond al basso, Russel Kunkel alla batteria, Craig Doerge alle tastiere e David Lindley alla lap steel e al violino. Dopo qualche brano del nuovo disco (in particolare, una formidabile Taken At All), scorrono i classici del duo (Southbound Train, Wind On The Water, Immigration Man, Take The Money And Run), qualche hit del sodalizio CSN&Y (Wooden Ships, Teach Your Children, Chicago, Long Time Gone) più alcune chicche acustiche. Tra queste, una memorabile The Lee Shore e una deliziosa Our House (piano e voci). Poi, tra gli episodi solisti, una fascinosa Triad (Crosby) e una suadente Simple Man (Nash). Tra le curiosità, uno strepitoso momento solista di David Lindley che con il suo violino azzurro affascina il pubblico con un medley di fiddletune irlandesi e appalachiane. "Siamo contenti di essere qui", dicono Crosby & Nash, "è un posto bellissimo. Torneremo presto." E, con un’incendiaria versione di Déja Vu, terminano uno show che, quasi trent’anni dopo, ho ancora chiaramente davanti agli occhi (e nelle orecchie). E, seppur qualche ricordo è oggi leggermente annebbiato, indimenticabile è lo stato di estasi che ho provato quel giorno. Tanto che, non fosse stato per mio fratello (che, con pazienza, mi ha convinto a venirmene via) sarei rimasto là a tempo indeterminato.


DAVID CROSBY & GRAHAM NASH CROSBY - NASH
(Sanctuary/Edel)
recensione di Enzo Gentile

Come duo, Crosby & Nash non hanno mai sbagliato un disco. Non potevano certo farlo adesso, quasi trent’anni dopo il loro ultimo lavoro in studio e a oltre quaranta dai loro esordi discografici. Anche perché le loro corde vocali sono integre, la loro creatività vivace, il loro gusto estetico sempre ricercatissimo. Come musicisti e compositori verrebbe da dire che siano persino migliorati. In questo senso, probabilmente, gli anni di esperienza giocano a favore. Lo conferma lo stesso David Crosby. "Credo servano, come minimo, quindici anni di studio e di esercizio per diventare un buon musicista", mi dice, "e anche se si è dotati di talento naturale, più tempo pratichi la musica e meglio diventi. Da ogni punto di vista: tecnico ma anche da quello della sensibilità. Cominci a concentrarti su ciò che è davvero importante e non perdi tempo su cose che poi si mostrano irrilevanti". Il progetto di quest’album è nato un paio di anni fa quando, terminato il tour promozionale di Songs For Survivors (l’ultimo disco solista di Nash) i due si erano ritrovati a Solvang, California nel corso di un benefit concert che Crosby organizza ogni anno. Lì avevano dichiarato la loro volontà di registrare di nuovo insieme. E così, tra gennaio e febbraio di quest’anno, si sono trovati in uno studio nei pressi di Los Angeles e con l’aiuto di musicisti/amici fidatissimi (Russ Kunkel e Lee Sklar a batteria e basso, Dean Parks alle chitarre più Pevar e Raymond, le "P" e "R" di CPR) hanno messo a fuoco venti canzoni suddivise in due cd. Troppo? Non certamente per i fan del duo, in pesante crisi di astinenza dopo anni di digiuno. Probabilmente, invece, il cultore appassionato avrebbe gradito una maggiore selezione in grado di rendere il progetto più fruibile e meno dispersivo. Operazione, del resto, tutt’altro che semplice. Innazitutto perché la stragrande maggioranza delle canzoni è di ottimo livello. E poi perché (tutto sommato) la durata totale è di 75 minuti circa: tempo leggermente superiore a quello di alcuni cd singoli. Il cd 2 è un piccolo capolavoro. Stilisticamente vario ma concettualmente omogeneo, ispirato e intenso, presenta nove brani deliziosi. Dalla potente ma elegante rock song Don’t Dig Here (che parla di rifiuti tossici seppelliti clandestinamente nella Yucca Mountain) alla fascinosissima Charlie (ballad obliqua e intrigante nella classica vena crosbyana) sino alle acustiche Milky Way Tonight o Shining On Your Dreams, romantiche e semplicissime come le più belle canzoni di Nash, contiene il meglio dell’arte dei due giganti della West Coast. Che, nel brano Michael, rendono un personale e commosso omaggio a un amico musicista (il fenomenale Michael Hedges) che non c’è più. "Quella di Michael", dicono in coro, "è stata una morte triste. Se ci pensi, aveva appena iniziato a farsi conoscere al di fuori del giro degli appassionati di chitarra acustica. Hedges era una persona fantastica e un musicista ispiratissimo. Che, ne siamo certi, avrebbe avuto ancora notevoli margini di miglioramento: lo vedevamo crescere costantemente. È terribile pensare che se ne sia andato così presto. Nel disco, c’è un ulteriore tributo alla sua arte: l’arrangiamento di My Country ‘Tis Of Thee era una sua idea chitarristica che, successivamente abbiamo sviluppato". Il pezzo, che chiude il lavoro, è un fantastico riarrangiamento (in chiave acustica, giocato proprio sullo stile sincopato tipico di Hedges) di un traditional che già Crosby aveva proposto nel suo come-back album di fine anni 80 Oh Yes I Can. "Nelle nostre intenzioni", spiega Crosby, "questa vuole essere una piccola dichiarazione d’amore agli Stati Uniti d’America. Noi amiamo questo Paese che è un grande Paese. Soprattutto ci piace l’idea originale che c’è dietro l’America e che è un’idea fantastica. Piuttosto, disprezziamo l’attuale amministrazione e il suo Presidente: gente ignorante, presuntuosa, arrogante, interessata solo al denaro e al potere. Bush ci disturba e troviamo grave tutta la sua politica internazionale e nazionale: è stato un disastroso e pericolosissimo esempio di malgoverno a 360 gradi. Quale risultato delle sue politiche, oggi anche i Paesi tradizionalmente amici degli Usa ci sono contrari. E l’odio che si è scatenato in tutto il mondo contro l’America ci colpisce molto e ci ferisce: noi siamo persone per bene e non dobbiamo essere confusi con i nostri governanti". La stessa grinta "politica" Crosby la mostra nella spietata They Want It All che sottolinea avidità e arroganza delle corporation come la Enron. Mentre ritrova climi esoterici e visioni psichedeliche in Samurai (folgorante brano a cappella) e nella sensazionale How Does It Shine (che chiude il cd 1 e ricorda Song With No Words). Se amate la particolarissima scrittura di Crosby, questi due pezzi saranno i vostri preferiti: sembrano uscire dritti dritti dalle tracce del mitico If I Could Only Remember My Name. Da sottolineare infine, nel cd 1, la track d’apertura Lay Me Down (scritta da James Raymond e che ricorda le atmosfere di CPR), la suggestiva Jesus Of Rio (che vede la partecipazione di James Taylor) e la magnifica I Surrender, brano scritto da Marc Cohn. "È un pezzo inedito", mi dicono Crosby & Nash, "abbiamo chiamato Marc chiedendo se aveva un pezzo da regalarci per questo nuovo album. E lui ci ha proposto I Surrender, una canzone d’amore delicata che a noi è piaciuta moltissimo". Nelle tracce del primo cd, anche due vecchi pezzi di Nash (On The Other Side Of Town e Half Your Angels) che non avevano trovato spazio negli album precedenti. Prodotto da Nathaniel Kunkel (figlio di Russ e producer emergente), l’album è un must per tutti gli appassionati. Che avranno modo di riassaporare atmosfere di sublime fascino acustico ma anche ascoltare una messe di nuove canzoni intense, sincere e piene di significativi messaggi. E che, una volta di più, mostrano caratura artistica, classe musicale e genio vocale di due rock heroes intramontabili.


PERFECT HARMONIES
DISCHI UFFICIALI E RARITA’
di Stefano Frollano e Salvatore Esposito

L’uscita di un nuovo lavoro, a distanza di ventotto anni (!) dall’ultima produzione in studio come duo, è l’occasione per raccontare le vicissitudini musicali di David Crosby e Graham Nash una volta tanto senza tirar dentro, seppur siano sempre dietro l’angolo, Stephen Stills e Neil Young. Il duo, che nell’immaginario collettivo ha rappresentato il lato melodico del famoso supergruppo, ha prodotto nel tempo, in misura differente, una manciata di album di rock di qualità, sempre coadiuvato da eccellenti session men e ospiti di gran lusso. Il successo mondiale di Déja Vu e il seguente tour americano del 1970 avevano decretato CSN&Y come unica voce, sociale e culturale, di un popolo, quello americano, ormai in balìa di eventi storici quali la guerra, le contestazioni, il razzismo e la politica di Nixon. Eventi personali avevano separato la band che si sarebbe ricostituita solo nel 1974 per un tour negli stadi. Crosby e Nash, che già avevano ‘legato’ musicalmente durante gli anni precedenti si ritrovano così nell’estate del 1970 a frequentare con maggiore assiduità la scena di San Francisco, i Grateful Dead e i Jefferson Airplane (ormai Starship). Crosby inizia a radunare attorno a sé musicisti di queste band e a registrare quello che diventerà per tutti l’album più significativo di quell’era, ricordato ancora oggi come la summa del suono della West Coast, If I Could Only Remember My Name (in uscita la versione in dvd-audio con un brano in più). Intanto Paul Kantner aveva anticipato con Blows Against The Empire il capolavoro di Crosby. È questo l’album dove anche Nash, che misserà tutto il secondo lato, inizia a collaborare attivamente al sound californiano. Nel gennaio 1971 Crosby e Nash suonano insieme per la prima volta in pubblico come duo. L’occasione viene data loro da uno dei primi benefit concerts, organizzato da Jane Fonda per la Winter Soldier Investigation: questo sarà il primo di una lunga serie di concerti tenuti dai due in oltre trent’anni di attività a favore delle più svariate organizzazioni del mondo. Consapevoli del loro potenziale, Crosby e Nash, dopo un primo episodio, Urge For Going di Joni Mitchell pubblicato solo nel 1991 sul boxset di CSN, decidono che è giunto il momento di unirsi. Dopo un tour acustico in America (dove peraltro in tre occasioni si aggiungeranno Stills e Young) e qualche data in Europa, cominciano a registrare il primo album, Graham Nash/David Crosby, soprannominato Black Album per via della copertina senza titolo. Il disco, uscito il 5 aprile 1972 per la Atlantic (quarto in classifica negli States), è una ottima raccolta di brani composti singolarmente dai due e poi incisi in studio insieme. Il lavoro riscuote subito un buon successo sia di critica che di vendite, ma senza dubbio non rapportabili all’alta qualità delle canzoni presenti. Naturalmente il giro di musicisti è quello dei Dead, ma c’è anche il supporto di un gruppo di session men (Russell Kunkel, Lee Sklar, Danny Kortchmar Craig Doerge, che in seguito diverranno noti come The Section). Di questo disco, di cui esiste una ristampa su cd non autorizzata dei due, vale la pena ricordare senz’altro i brani d’apertura e di chiusura scritti da Nash, Southbound Train (di cui esiste una versione inedita con Young) e Immigration Man. Di Crosby segnaliamo Games, un brano del 1968, Page 43 e Where Will I Be? (Gothic Blues il titolo originale), già registrata durante le session del suo primo album solista e qui in versione diversa. Gli altri brani presenti, certamente minori, completano il disco, ma ci piace ricordare Frozen Smiles di Nash dedicata a Stills, scritta a proposito dell’astio che si creò alla fine del ‘71 quando voci insistenti, che volevano l’Atlantic produttrice di un album live intitolato Crosby Nash And Friends (il brano Blacknotes è uno scampolo di quel progetto), fecero arrabbiare non poco il texano, che con Young sarebbe apparso in qualità di ospite. Dopo il tour del 1974 di CSNY la coppia torna in studio nel ‘75 per un disco di gran lunga superiore al precedente, più maturo e con un suono ben distinto: Wind On The Water. Accompagnati da The Section, ribattezzati The Mighty Jitters (con l’aggiunta di David Lindley e Tim Drummond), Crosby e Nash lo pubblicano per la ABC il 15 settembre 1975. Ancora una volta grandi nomi sono coinvolti: James Taylor, Carole King e Jackson Browne. Sin dall’iniziale Carry Me, che si muove su una splendida linea melodica in cui le voci di David e Graham si fondono in un impasto vocale di alto livello, si apprezza una maggiore omogeneità stilistica dei brani. È memorabile il finale con il medley To The Last Whale: Critical Mass/Wind On The Water che rappresenta il vertice del disco. Intanto anche Stills e Young si rincontrano musicalmente. In Florida, nel gennaio e nel febbraio 1976, registrano Long May You Run e affiora l’idea di chiamare i due vecchi compagni. Interpellano Crosby e Nash che volano per unirsi al progetto e aggiungere le loro magnifiche voci a un set di canzoni già di buon livello. Vengono provati anche altri brani, ma il progetto di un nuovo lp in studio del mitico quartetto naufraga ancora. Stills cancella dai master le voci di Crosby e Nash (l’archivista Joel Bernstein conserverà su due tracce le versioni a quattro voci; ascoltatevi Long May You Run su Decade di Young finita lì per errore) che nel frattempo sono tornati in California per gli ultimi ritocchi al seguito di Wind On The Water. È l’ennesima rottura. Bruciati e traditi Crosby e Nash pubblicano il 25 giugno del 1976 Whistling Down The Wire (# 26 in calssifica), un nuovo disco contenente in parte materiale già registrato l’anno precedente ed escluso da Wind On The Water e alcune canzoni nuove. Il risultato è ancora una volta buono ma sicuramente un gradino sotto l’illustre predecessore, ed escludendo la nuova raccolta, questo rappresenta il terzo episodio ufficiale in studio del duo. La fine del 1976 vede la riappacificazione con Stills e il trio, stavolta orfano di Young, entra in studio per pubblicare un album che, secondo in classifica nel giugno del 1977, rilancia il supergruppo. L’esperienza di Crosby e Nash sembra così essersi conclusa, ma non per l’ABC che sull’onda del successo di CSN pubblica nel novembre 1977 Live (# 52), che include una serie di brani registrati dal duo durante i tour del ‘75 e del ‘76. La ristampa in cd del 2000 contiene anche due bonus track, Bittersweet e King Of Mountain. Un tentativo nel 1978 di CS&N in studio fallisce ed ecco che nel 1979 i due pensano di tornare insieme per un lp. Ma il progetto, per le improvvise pessime condizioni psicofisiche di Crosby, già dedito agli stupefacenti da tempo, impediscono il lieto fine. Alcuni brani registrati in studio vengono dirottati su Earth & Sky di Nash nel 1980 e sul disco, che non uscirà mai, di Crosby per la Capitol. Nel 1993 Matters Of The Heart è l’ennesimo tentativo di pubblicazione di un nuovo album come duo. Vengono registrati due brani con un coro gospel di 25 elementi. Malgrado la copertina già pronta, basata su un dipinto di Magritte, i due autori però non portano a termine le session e se ne vanno in giro per gli Usa, alternando la loro attività a quella di CSN. Aggiungiamo per dovere di cronaca le altre uscite discografiche susseguitesi negli anni. Another Stoney Evening è un live registrato il 10 ottobre del 1971 a Los Angeles e pubblicato nel 1997. Tracce di Crosby e Nash come duo si possono trovare nel doppio lp Bread And Roses Festival del 1980 (The Leeshore, Military Madness e Just A Song Before You Go), un live in cui sono presenti molti artisti del folk americano, e in un cd del 1997 dal titolo Sing Out For Seva, altra raccolta con vari artisti (Wooden Ships più le voci su Box Of Rain dei Dead). Le antologie ufficiali sono due: The Best Of Crosby & Nash, pubblicata nel 1978 dalla ABC, e The Best Of Crosby & Nash: The ABC Years del 2002, che raccoglie solo i brani pubblicati per la ABC. Per il materiale inedito vi segnaliamo un altro Stoney Evening, un cd che sarebbe dovuto uscire tempo fa e che ritrae i due artisti in concerto nel dicembre 1974. Inoltre vi citiamo alcuni stralci di session del 1978/79 per il progetto abbandonato dal duo: entrambe di Graham sono l’inedita Here In The Same Boat e una versione di On The Other Side Of Town (il cui titolo originale era I Wouldn’t Hurt You For The World) già registrata durante le session del "disco della barca" di CSN. Le session del 1989 produssero, oltre i brani ospitati in Live It Up di CSN, anche Flying Fast, Game Of Hearts, Jigsaw, Try To Find Me (di Nash e ascoltabile nel video di CSN Acoustic), tutte rimaste inedite, e King Of The Mountain. Per chi volesse approfondire una materia così vasta, considerando il numero elevato di brani e jam registrate dai due autori, può senz’altro consultare i volumi dedicati a CSN&Y (Crosby Stills Nash And Sometime Young) e reperibili sul sito http://www.booksoncsn.com.

Si ringrazia la redazione di JAM per la concessione (www.jamonline.it)

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