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A Treasure - Rassegna Stampa


Chissà se quando gli fecero causa perché aveva prodotto musica “non tipica di Neil Young” quei discografici sentivano più nostalgia dei Buffalo Springfield o di CSN&Y; se avevano in mente “Harvest” o “Ohio”; se pensavano più al chitarrista sopraffino o al portavoce di una generazione; se intendevano la star nel supergruppo stellare o il solista di ritorno. Chissà. Ma dire “tipico Neil Young”, ammettiamolo, è un ossimoro. E’ sensato, semmai, parlare di “vintage Neil Young” – proprio come nel caso di A Treasure, una produzione d’annata perfettamente conservata. Rewind. Siamo a cavallo tra il 1984 e il 1985, quando il canadese da molto tempo non ha più l’età, il passo e l’ambizione di rappresentare l’avanguardia di una controcultura pacifista ed ha abituato il suo pubblico ad attendersi da lui qualsiasi cosa; imperterrito, scorrazza dentro a un continente che vive in pieno l’era MTV ed è fiaccato dall’insidioso riflusso delle reaganomics. Ecco che il canadese opta per il country, un po’ come mostrare il dito medio all’industria musicale in quel momento. Circondato da un manipolo di leggende di Nashville e dintorni, ribattezzati International Harvesters, Young parte in tour negli Stati Uniti insieme al fidato Ben Keith (steel e slide guitar), a Rufus Thibodeaux (violino), a Spooner Oldham e Hargus “Pig” Robbins (piano e tastiere), a Tim Drummond e Joe Allen (basso), a Karl Himmel (batteria), a Anthony Crawford (chitarra, banjo e mandolino). Parte in tour con una delle sue migliori band di sempre: suonano da Dio, suonano e basta. Niente messaggi da Neil, se non quello implicito della provocazione - il country dopo tutto conserva un sapore vagamente reazionario, è una scelta redneck, incarna uno stile dall’immagine ingiallita e un po’ guasta in quel periodo. Fast forward, ora. Ventisei anni dopo, ecco il “tesoro” recuperato, perfettamente sigillato e resistente alla corruzione del tempo: le registrazioni di quel tour vanno a formare A Treasure”, 12 pezzi live in un album (Reprise Records) proposto in CD, vinile, digital download, edizione de luxe CD/Blu-Ray (nella versione Blu-Ray abbondano i video dal vivo). Puro country vintage, qualche gemma e cinque inediti: il primo singolo “Grey riders”, molto potente e ruvido, che contrasta con la delicata e dolce “Amber Jean”; la comica e divertente “Let your fingers do the walking”, la bluesy e ottima “Soul of a woman” - probabilmente la vetta del disco - e, infine, “Nothing is perfect”. E che dire di “Flying on the ground is wrong”, una splendida cover dei suoi Buffalo Springfield più onirica e sognante che non grass roots, più pop che non country and western: solo Neil Young poteva condurre la creme di Nashville sull’orlo del Laurel Canyon e rievocare un po’ di Beach Boys. Ma gli International Harvesters sanno il fatto loro, e sanno come portare a loro volta Neil Young come dentro a un film di John Ford a cantare “Southern Pacfic”, arrembante, tradizionalissima, trascinante come una locomotiva in piena corsa. Forte del proprio spessore e della propria personalità, Neil Young si è sempre sentito libero di spaziare dal rock all’elettronica, dal blues al rockabilly; improvvisi cambi di direzione, i suoi, che tradivano curiosità ma anche noia; ricerca di nuove sfide con cui, talvolta, finiva con lo sfidare anche il comune senso del pudore musicale; scelte sonore e di genere dentro un percorso che, a posteriori, è evidente che cessò di essere in sintonia con le tendenze dell’epoca che l’artista stava vivendo già alla fine degli anni Settanta. Ma, oggi ci è chiaro, questo è ciò che fece di lui un vero punk dell’anima. A Treasure, slegato dai condizionamenti dell’attualità e impreziosito dall’aura di scrigno miracolosamente scampato all’oblio, ne testimonia una volta di più la padronanza della musica e sa come trasmettere al pubblico internazionale il senso dell’importanza e del country nella formazione e nella cultura dei migliori artisti d’oltre oceano. Neil lo ama, né è influenzato e, almeno ogni ventisei anni, ne avverte l’attrazione. 
G. Di Carlo, rockol.it


DAGLI ARCHIVI DI YOUNG UN TESORO DEGLI ANNI '80
Il rocker canadese con una band di stelle del country: A Treasure, con storiche incisioni. 

Con i piedi nel passato e uno sguardo rivolto al futuro. Neil Young pubblica in questi giorni un nuovo album, A Treasure, contenente registrazioni live con diversi inediti, di un tour di metà anni '80, quando il rocker canadese era accompagnato da una band di stelle della musica country & soul, The International Harvester. Ma oltre alla usuale versione in cd, il disco esce in vinile, in download digitale e in versione deluxe Cd/Blu-Ray, per il massimo della resa sonora. «Il cd ha un suono brutto», spiega Young nel video che accompagna il disco. «E gli Mp3 fanno schifo. Così, visto che il modo migliore sarebbe il dvd, che ormai svanirà, ho scelto di mettere la musica su Blu-Ray, la tecnologia che permette il miglior ascolto».
Le dodici tracce di A Treasure fanno parte delle uscite denominate Archives Performance Series e prendono il titolo da una frase del co-produttore Ben Keith: «Non ascoltavo queste canzoni da 25 anni ma quando le ho fatte sentire a Ben, mi ha guardato e ha detto: "Ma questo è un tesoro!"».
A impreziosire il materiale e le canzoni inedite sono i musicisti coinvolti in quel tour americano anni 1984-1985. Gli International Harvesters sono una vera Internazionale del country, fuoriclasse che lo stesso Neil non ha problemi a definire «autentiche leggende del country; pietre di paragone con cui i musicistici attuali si confrontano - e adoro ascoltarli». Basta un ascolto distratto per apprezzare la misura e la bravura di Keith alle chitarre steel e slide; di Rufus Thibodeaux al violino, dei leggendari Spooner Oldham e Hargus «Pig» Robbins al pianoforte, con Tim Drummond e Joe Allen al basso, Karl Himmel alla batteria e il polistrumentista Anthony Crawford alla chitarra, banjo e mandolino.
Young lo scorso anno ha vinto i due principali premi musicali nordamericani, il Grammy e il Juno Award canadese per l'album di avant-rock Le Noise, e siamo sicuri che li rivincerà anche quest'anno, magari nella categoria disco country.
A quel tempo Young doveva fronteggiare una causa in tribunale, intentatagli dalla sua stessa casa discografica, per non aver pubblicato dischi alla Neil Young e per essersi interessato troppo al country vecchio stile. Su questa sua tendenza a scivolare tra i generi, toccando anche l'elettronica, Neil ha affermato: «Sì, mi potete chiamare eccentrico, stravagante o capriccioso, ma lo sono sempre stato in maniera costante. Insomma, c'è costanza nel mio essere sfuggente».
Con A Treasure sembra voler indicare una voglia di tornare alle radici del suono rock made in Usa, quelle esplorate dall'album Old Ways (vecchie strade ma anche vecchie maniere) ma se vi aspettate che il suo prossimo disco di inediti sia country anni '70 come questo «tesoro», andrete incontro a una delusione. 
G.BR., bresciaoggi.it


Non si tratta di un disco nuovo, bensì di registrazioni dal vivo datate 1984-1985.
Era un periodo abbastanza buio per Neil, anche se Old Ways (1985) rimane forse l'opera migliore di quel decennio (a parte ovviamente Freedom).
Un disco sofferto, riuscito solo in parte, avversato anche dalla Geffen : ma la band che Neil aveva messo assieme ed il tour che ne è seguito, sono tra le cose più belle di quella stagione.
Quando Young ha ritrovato questi nastri e li ha fatti sentire ai suoi amici, Ben Keith gli ha detto che erano “un tesoro“.
Ed a ragion veduta.
Una band stellare: oltre a Keith, Anthony Crawford (chitarra e banjo), Rufus Thibodeaux (violino), Spooner Oldham (piano), Tim Drummond (basso) e Karl T. Kimmel (batteria).
In tre canzoni abbiamo Hargus Pig Robbins (piano), Joe Allen (basso) e Matraca Berg e Tracy Nelson alle voci.
Come si può evincere dai nomi ci sono alcuni grandi sidemen country (Robbins, Thibodeaux, Oldham, Crawford) e turnisti di indubbio valore.
Un tesoro, vero, verissimo.
Prima di tutto ci presenta un Neil Young country rock, come non lo abbiamo mai sentito, almeno con questa continuità, con steel guitar e violino sugli scudi ed i classici up tempo country.
Poi il disco in questione contiene cinque inediti assoluti (“Amber Jean”, “Let Your Fingers Do The Walking”, “Soul of A Woman”, “Nothing is Perfetc” e “Grey Riders”), cinque brani che i fans di Young attendevano da molto tempo.
E, dulcis in fundo, è un disco molto bello che viene fuori da un periodo che non aveva dischi di questa qualità : ulteriore dimostrazione delle camaleontiche qualità del canadese, in grado di sdoppiarsi e dare il meglio di sé quando tutti pensavano il contrario.
Se si riascolta Old Ways, non ha certo questo suono, questa brillantezza di fondo, queste canzoni.
“Amber Jean” è una country ballad come di rado Neil ci ha fatto ascoltare.
Intro di violino, quasi un valzerone, una voce perfetta ed una canzone che non si capisce come mai sia rimasta sepolta sino ad oggi.
Keith brilla alla steel e la canzone è una vera chicca, puro country come di rado Young ci ha fatto sentire.
“Are You Ready For The Country?”, resa celebre da Waylon Jennings già nel 1976, è (come dice il titolo) un classico brano country, con il piano di Oldham che fa tanto honky tonk, mentre Thibodeaux sfodera le sue armi migliori al fiddle: la jam centrale è spettacolare.
“It Might Have Been” (l'unica non composta da Young) è un classico country, con tanto di intro di violino e tempo cadenzato: Neil canta con consumata arte, quasi fosse George Jones, mentre Oldham sfodera le sue note migliori al piano.
Si fa fatica a credere che sia un disco degli anni ottanta di Young, tanto è armonico, fluido e decisamente godibile.
“Bound For Glory”, niente a che vedere con Woody Guthrie, è un'altra country ballad di stampo ultraclassico.
Ritmo quadrato, voce perfetta, refrain classico.
Siamo in Texas, mica in Canada.
La naturalezza della voce solista e la fluidità della band (una delle migliori al suo servizio) rendono il tutto decisamente affascinante.
“Let Your Finger Do The Walking” è puro honky tonk, con quel train classico, come se Waylon e George fossero in studio a fare le doppie voci.
Ma qui siamo dal vivo, con la gente che applaude e Thibodeaux e Keith che fanno i numeri, cercando di sopravanzarsi l'un l'altro.
“Flying On The Ground is Wrong” è una ballata lenta, meno country del resto, ed un po' troppo rilassata, per i miei gusti.
Ma il treno riprende a correre con “Motor City”, abbastanza buona, e prende velocità con la roccata, ma in positivo, “Soul of A Woman”.
Thibodeaux entra di brutto con il fiddle, Crawford gli risponde con il banjo e “Get Back to The Country” prende il volo.
Tempo indiavolato, quasi bluegrass, ma con una musicalità coinvolgente e la bravura dei singoli a fare la differenza.
“Southern Pacific” è una jam country rock di quasi otto minuti, con il treno che la guida attraverso sonorità intriganti che vanno addirttura a scivolare nella jam psichedelica.
“Nothing is Perfect” ci riporta in ambito country, che più classico non si può, con il piano Oldham (splendido) e Thibodeaux (pure lui stupendo), che incidono alla grande.
“Grey Riders”, un inedito, chiude il disco (che era stato aperto da un altro inedito: “Amber Jean”).
Una rock n country song dal tempo ondivago, con Young che rocca e Thibodeax che stringe le corde del suo fiddle.
Un album soddisfacente quanto inatteso che conferma Young talento formidabile, anche quando meno te lo aspetti. 
Paolo Carù, Buscadero


Ci sono due pesi massimi sul “piatto news” della bilancia canadese del rock: la prima è quella che più “pesa” ovvero che l’orso Neil Young tornerà sulle scene con gli amici originali dei Buffalo Springfield, ovvero Stephen Stills, e Richie Furay, con il basso di Rick Rosas al posto del defunto Bruce Palmer e la batteria di Joe Vitale al posto di Dewey Martin. La seconda è quella dell’uscita del suo nuovo disco A Treasure che più che una nuova avventura della saga Younghiana, è il disco nove della “Neil Young archives performance series” e che contiene nel suo interno inediti live che furono il cavallo di battaglia di un glorioso tour americano sui crinali degli anni 84/85 insieme agli International Harvesters, e che andarono a sedimentare la colonna sonora di quel bel disco che firmò – non senza mugugni sollevatisi da una talebana Nashville - la storia country mondiale col nome di Old Ways.
E qui non ci possono essere mezze parole, formule critiche o detrazioni cavillose alla ricerca del pelo nell’uovo, è il disco che fa sciogliere anima e corpo, il disco della malinconia odorante di fieno e watermelon, il vizio focoso della nostra gioventù scapigliata che questo rocker di razza – sempre quando meno te l’aspetti – rispolvera, strappa e sbatte in faccia prima che la naftalina del tempo ne smorzi anche il benché minimo accenno di combustione.
Non solo country, ma rock, blues, bluegrass, le belle ballatone dai grandi polmoni, gli immensi sterrati americani di provincia che si aprono e chiudono a mantice tra gli asfalti blu delle highway e le gasoline point sognanti che distribuiscono voglie di libertà assoluta; è questo il climax di questo gioiello che torna dal passato con tutto l’armamentario sonoro d’ordinanza, il fiddle, la slide, la steel guitar, l’Hammond con la Leslie e tutti i falò canonici della tradizione folk a stelle e strisce, le americanate che ci sono sempre piaciute; dopo avere stressato l’ascoltatore con la versione di un hit indimenticabile come “Flying on the ground is wrong” dei Buffalo stessi, arrivano cariche di baldanza folkney “Amber Jean”, “Bound for glory”, ”Let your finger do the walking”, “Grey riders”, corre il rock slidato “Are you ready for the country”, traccia da almanacco e jeans, sporca di lussuria il bluesy slabbrato “Soul of a woman” e spasima sotto le stelle luccicanti di pathos “Nothing is perfect”, il tutto messo al servizio di un ascolto che va in giuggiole tra timbri, melodie, riff e banjo, che non vuole perdersi nemmeno un capello di questo immenso artista che ha sempre tirato dritto tra tradizione e rock graffiante, con i suoi lati umani e artistici sempre vissuti all’ombra e alla luce di infinite soluzioni sonore.
Si dice sempre che trovare un amico è trovare un tesoro, ed effettivamente con A Treasure un tesoro è ritornato in vita, e orso Young non fa altro che colorarci il nostro onirico con le sue straordinarie poesie delegate al vento, e che ogni volta che ci arrivano ci fanno sempre sentire lontano da casa, ma saturi di brividi. 
Massimo Sannella, rocklab.it


C'è stato un tempo in cui la carriera di un vate del rock come Neil Young ha vacillato. Un tempo in cui flirtare con l'elettronica (e giocare con il vocoder) era una tremenda bestemmia e sperimentare equivaleva a tradire producendo “musica non tipica”. Un tempo in cui i problemi personali e legali prosciugavano ogni energia creativa, e il modo migliore di lasciarsi alle spalle critiche e difficoltà era andarsene in tour con gli International Harvesters, la sua amata country band, lasciando a quella musica che sa di radici e vita vissuta il compito di lenire le sofferenze. A Treasure è il documento sonoro di quell'esperienza, il nono volume dell'imponente Archives Performance Series, summa di una serie di show tra il 1984 e il 1985, con un importante doppio significato, musicale e umano.
12 canzoni, tra cui cinque inediti, gioielli (ri)scoperti a cui il tempo non ha tolto un briciolo dell'antico splendore. E che assumono particolare valore in quel decennio contraddittorio, in cui una star di b-movie diventava presidente di una superpotenza, l'economia amava il rischio e la società affrontava nuovi spettri. Il tipico Nashville sound con i violini in gran spolvero domina “It Might Have Been”, il gospel con la sua taumaturgica universalità fa capolino in “Nothing Is Perfect”, il bluegrass e i banjo colorano “Get Back to the Country”, il blues misto al rock Fifties anima “Soul of a Woman”, le chitarre più ruvide e sporche infiammano “Motor City” e “Grey Riders”, una dolcezza soul pervade “Amber Jean” e delicati accenti pop assecondano l'ironia di “Let Your Fingers Do The Walking”, classico dei Buffalo Springfield. Lontano dalle pressioni, Neil Young torna a respirare e a brillare. Dimostrando anche ai detrattori che non importa quale sentiero imbocchi: il sacro fuoco dell'arte è sempre vivo. 
Daniela Liucci, freequency.it



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