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Americana - Rassegna Stampa (pt.2)


Neil Young ama viaggiare nel tempo, crea la sua musica senza badare alle mode, ma seguendo con attenzione le variazioni del mondo, i sentimenti, le tensioni. Viaggiare nel tempo è rischioso, lo espone a dei rischi, ma la sua straordinaria leggerezza, la sua forza, la sua intelligenza creativa, lo mette al riparo da tutto. Alcuni dischi possono piacere di meno, altri di più, di certo ogni suo album è frutto di un’onesta riflessione su quello che secondo Young è importante in quel preciso momento. Il che vuol dire che può passare dal rock elettrico alle ballate acustiche, dal rock’n'roll al soul, dal blues al grunge. Ora Neil ha deciso di mettere in scena la sua macchina del tempo, suonando brani tradizionali, tradizionalissimi, ma assieme alla sua band più elettrica, i leggendari (si, leggendari) Crazy Horse. E lo fa con Americana, un disco curioso, prezioso, fantastico e unico, diverso da tutto quello che potete ascoltare in giro, appassionato e forte, vecchio e moderno. Bastano le prime, travolgenti, distorte note dell’album a farvi capire che Neil Young non ha nessuna intenzione di raccontare vecchie storie, ma che le vecchie storie che ha da raccontare sono perfette per noi, adesso.
Ernesto Assante, assante.blogautore.repubblica.it


I volti di Neil Young e dei Crazy Horse sono letteralmente incollati su quelli originali di una foto del 1905: è stata scattata su una Locomobile Model C dalle parti di Ponca City, Oklahoma e fra i suoi passeggeri si staglia il leggendario capo indiano Geronimo. Non rinuncia alle sue radici il "Cavallo Pazzo" canadese e in un disco che si intitola programmaticamente Americana rispolvera l'iconografia di una band e di un suono che sono diventati uno standard irrinunciabile del rock'n'roll. Contraddittorio, persino irritante, Neil Young decide di riaccostarsi alla tradizione, ma nell'imbastire un omaggio alla memoria del folklore americano scompagina ogni certezza. Invece di scegliere oscuri brani, assumendo un tono da ricercatore acuto, opta per immortali classici cantati persino dai bambini a scuola, dando in pasto, tra le altre, l'ennesima variante di “This Land is Your Land” di Woody Guthrie (a dire il vero uno dei brani meno interessati); piuttosto che armeggiare con prevedibili sonorità rurali d'impronta acustica, chiama a raccolta i vecchi pard (compreso il desaparecido Frank Sampedro, inspiegabilmente escluso dalla precedente rimpatriata, Greendale) e assalta all'arma bianca il repertorio con il marchio di fabbrica della band, ovvero un country rock sgangherato all'inverosimile; infine intitola, come anticipato, l'album Americana, ma chiude, lui canadese, sulle note dell'inno britannico “God Save the Queen” (marziale ed elettrica), un po' come se qualcuno andasse in Algeria ad intonare la Marsigliese.
Prendere o lasciare: conclusi i quasi sessanta minuti di improvvisazione live, buona la prima e chi se ne importa delle imprecisioni, avrete ancora la strana sensazione di essere stati presi per i fondelli, ma il sorriso non lascerà la vostra faccia. Infilata la spina, attaccati i jack negli amplificatori, alzata al massimo la manopola del gain e via verso i massimi livelli di saturazione, Americana è un goffo, adorabile divertissment che mette alla berlina la sacralità del passato: contrariamente alle apparenze non si inchina agli ossequi dovuti e lacera le elementari melodie di Oh Susanna e Clementine, capovolgendole in sbilenche, ubriache ballate rock, sospinte da abrasivi riff di chitarra e stranianti cori fanciulleschi. La murder ballad “Tom Dula” (riprendendo il nome di battesimo del vero assassino narrato nella folk song “Tom Dooley”, portata al successo dal Kingston Trio) in tal senso è un prototipo dell'approccio generale: tanto approssimativa quanto ossessiva in quella litania continua del coro che echeggia il nome del condannato a morte, mentre i Crazy Horse traccheggiano assonnati sulle note della chitarra di Young.
La memoria torna dunque alla formula dell'immortale Ragged Glory: era il 1990 e il loner canadese riemergeva sulla ribalta come padre putativo del grunge. Pur mancando le vette artistiche di quel disco, Americana si rannicchia su simili intuizioni: il country rock a rotta di collo in “Travel On”, i grovigli elettrici di “High Flyin' Bird” e della feroce “Jesus' Chariot”, infiammate dalla solista di Young che maneggia la leva della Gibson e strappa le corde come ai bei tempi. Te li immagini allora tutti stipati in un vecchio granaio, tra il profumo del fieno e la puzza di bruciato delle valvole, a stonare inni folk sfigurati e un po' marinareschi. A volte la situazione sfugge di mano, così che ad una galoppante e scardinata “Gallows Pole” controbatte l'inverosimile rilettura del classico doo-wop dei Silhouettes “Get a Job”, talmente comica da farsi perdonare per l'ingenuità. In tutta la sua apparente sconsideratezza, Neil Young continua ad essere un genio provocatore e un mirabile filibustiere: la ruggine non dorme, i Crazy Horse sono tornati!
Fabio Cerbone, rootshighway.it


Neil Young non può essere certo definito uno sperimentatore. Nella sua carriera si è limitato - si fa per dire - ad esplorare il proprio linguaggio sostanzialmente folk rock ed i suoi riflessi anche distorti nell'immaginario popolare, bazzicando estremi soul e punk con sporadiche digressioni noise ed electro, queste ultime a dire il vero abbastanza dimenticabili. Nei suoi ultimi lavori ci s'imbatte spesso in un piglio lo-fi che potremmo quasi definire dopolavorista, sorta di noncuranza programmatica che pone l'accento sullo zampillio ruspante del verbo rock in brusca opposizione alla professionalità standard di tanta produzione contemporanea. I risultati quasi mai sono stati all'altezza del passato, ma se non altro tradiscono un'ansia di cavalcare musica che va al sodo senza niente concedere ad autoindulgenze e narcisismi vari, e che ci ha condotti di gran carriera all'album numero 34 - !!! - firmato dall'ineffabile canadese, per l'occasione di nuovo in sella ai sempre dirompenti Crazy Horse.
Con Americana però Young scopre ancora più le carte del suo gioco e ci offre una tappa nuda e cruda del suo "journey through the past", pescando dal calderone della memoria (personale e collettiva) undici pezzi che hanno accompagnato in modi e tempi diversi la Storia - appunto - americana. Molti i pezzi definibili come traditional (una “Oh Susanna” irruente come una trafelata rilettura di “Venus”, la macabra baldanza di “Gallows Pole”, una ombrosa “She'll Be Coming Round the Mountain” e l'innodia fiera di “This Land Is Your Land” con nientepopodimeno Stephens Stills ai cori...), ma anche doo wop proletari (“Get A Job”) e archetipi psych-folk (una intensa “High Flyin' Bird”). Agli antipodi dell'impeto fracassone di “Clementine” e “Travel On” - non lontane dallo sferragliare scomposto di Ragged Glory - c'è una “Wayfarin’ Stranger” a lume di candela, quasi a mettere l'accento sul dark side di questo carosello che è sì "funky", come puoi sentire pronunciare dallo stesso Neil "off the record", ma anche grave come un controcanto a quest'epoca di crisi prima di valori che economica.
Stesso spirito che anima il film A Day At The Gallery, ideato e diretto da Young (col consueto moniker Bernard Shakey), realizzato con la supervisione artistica di Shepard Fairey (l'autore del celebre poster in tricromia di Obama) e visibile sul sito ufficiale: il taglio vagamente ispirato a The Artist e le canzoni a fare sottofondo di reperti cinematografici come fantasmi di un'epopea tragica e formidabile. Operazione nel complesso interessante oltre i meriti strettamente musicali, i quali comunque testimoniano il buon stato di forma del vecchio lupo grigio. Non stupiscono quindi i rumors circa un imminente nuovo album di inediti, sempre coi Crazy Horse. 
Stefano Solventi, sentireascoltare.it


Che vi dica che si tratta del trentaquattresimo album che il Loner canadese registra non aggiunge nulla al carattere del Nostro musicista. Si tratta di un idealista, uno che sogna forte, uno che ci crede, uno che tira le corde della sua chitarra in direzioni sconosciute ai più, uno che si lancia. Uno che accetta di fare dischi “minori” per poi esplodere in capolavori che riescono solo a lui. In questo caso ha richiamato i “principi del caos” conosciuti col nome di Crazy Horse e si è ritagliato il ruolo a lui congeniale di membro del gruppo. Parra’ una messinscena ai più , perchè si capisce molto, fin troppo bene che la direzione la dà rigorosamente lui ma nessuno, credo, possa discutere in sala di registrazione di un certo arrangiamento e delle splendide farraginosità arrangiative del gruppo. Oltre modo siamo in un ambito di covers davvero conosciute da tutti alle quali il Neil ha voluto restituire liriche dimenticate e/o nascoste; succede che pezzi che diventano repertorio di una nazione vedano i loro testi accorciati o edulcorati, l’intenzione di Neil è di restituire tutto lo scuro di queste canzoni. Cavalcate lisergiche diventano pezzi che sono repertorio di ogni combo folk rese in modo nuovo e vecchio allo steso tempo. Neil usa lo studio senza risparmiarsi nulla, non credo nessuno si azzardi a dirgli che cosa deve o non deve fare, così, si sentono degli episodi bizzarri ma riusciti come Oh Susannah resa una via di mezzo tra i Los Lobos e Santana, per un pezzo che è l’archetipo dei luoghi comuni. Solo un canadese libero e freakkettone nel senso positivo della parola può riuscirci, perdipiù con l’etichetta prestigiosa della Reprise. Get A Job e’ uno dei miei ricordi di adolescenza da quando ho visto quel capolavoro lucasiano di American Graffiti, qui Neil demolisce l’atmosfera sognante di fifities e rende invece una specie di sogno dalle atmosfere alla Lynch e tamburi battenti, provare per credere, funziona! Più filologico ma sempre avventuroso è il percorso Guthriano di Neil per This Land Is Your Land che diventa territorio di distorsioni e leve che vengono buttate dentro amplificatori vintage e batterie a tenere il tempo. Pacatamente acustica è Wayfaring Stranger, un incrocio tra un Dylan poco riottoso e un accordo minore sul quale si spalma un’atmosfera densa di reminescenze. Come nel caso di altri formidabili canadesi, sto pensando alla Band e al suo Sud immaginato e fiabesco, ci vuole tutto il cuore libero da pregiudizi di un canadian per riscrivere il mito dell’America che forse non esiste più e, in più, chiamare il disco Americana. Ci vuole coraggio. Neil ce l’ha e alla fine vince la sfida a colpi di Blackie... Bentornato Neil e bentornati Crazy Horse.
Antonio "Rigo"Righetti, blogfoolk.com


Arriva un tempo nella carriera di (quasi) ogni artista in cui è d'obbligo rivisitare la tradizione musicale del proprio paese, natale o d'adozione. E riproporla con diversi gradi di passione e convinzione, non sempre paragonabili a quelli raggiunti, per esempio, dal Bruce Springsteen di The Seeger Sessions o da Billy Bragg e i Wilco di Mermaid Avenue. Nel caso di un'istituzione come Neil Young, le parole d'ordine sono creatività e provocazione, nascoste da strati di apparente confusione. Neil richiama a sé i fidi Crazy Horse – incluso Frank "Poncho" Sanpedro assente dal 1996 – per lavorare a un nuovo album, e durante la fase di riscaldamento, tra un riff e l'altro, nasce l'idea di un'antologia della tradizione folk americana. Ma come riproporli in modo che non assomiglino al piatto del giorno prima riscaldato al microonde? Semplice. Regalando loro il vibe da jam session in sala prove, con tanto di voci e risate di sottofondo, inondandole di feedback e riff laceranti, rivestendole di variazioni melodiche “rubate” alla popular music di diversi decenni.
Americana, infatti, è un un mashup musicale, tanto destabilizzante quanto intrigante. A partire dalla copertina: una vecchia foto di inizio Novecento in cui i volti dei personaggi ritratti sono stati sostituiti da quelli di Young e soci. Dalle note introduttive di “Oh Susannah”, le intenzioni risultano chiare: confondere per riflettere. Ecco perché non è un'allucinazione percepire nel classico di Stephen Foster l'eco di “Venus” degli Shocking Blue, o in “Clementine” quelli più ovattati di “What A Feeling” di Irene Cara, o pensare a “Hit The Road Jack” di Ray Charles in “Gallows Pole”, ufficialmente ispirata alla versione di Odetta, o ancora a “Greased Lightning” e ai Beach Boys in “Get A Job”. Altrove, invece, a trionfare è il tipico – tirato un po' per le lunghe – garage-punk-rock younghiano (“High Flyin' Bird”), virato al country (“Travel On”), denso e soffocante (“Jesus Chariot”, aka “She'll Be Comin' Round the Mountain”), elettrificato all'osso (“This Land Is Your Land”, insolitamente fedele all'originale). Fino al guizzo finale. L'inno nazionale britannico, minaccioso come una marcia di guerra ma alleggerito dall'aggiunta di un verso di “My Country, 'Tis of Thee” di Samuel Francis Smith: “Let freedom ring”.
Neil Young scherza, ma non troppo. La sua impresa, anche se non destinata a rimanere nella memoria, è la perfetta istantanea dell'America odierna. Ovvero una nazione in preda all'ennesima depressione, le cui strade sono ancora percorse da fantasmi di Tom Joad, le cui città soffrono gli effetti collaterali del progresso. Un luogo lugubre, decadente, tragico, dove tutti tuonano opinioni, tutti si appropriano di tutto, tutti paradossalmente fortificano la propria identità con “pezzi di ricambio” altrui. Proprio come in questo disco. Alla fine, ha ragione Neil.
Daniela Liucci, freequency.it

Dopo la collaborazione con Daniel Lanois per Le Noise, e dopo un bootleg (A Treasure; Reprise, 2011) che anticipa il secondo volume dei suoi Archives, Neil Young richiama in causa i suoi mitici Crazy Horse, che non si vedevano dai tempi di Greendale, per una raccolta di traditional americani dal titolo altamente didascalico e ben poco fantasioso, Americana.
Con Americana Young vorrebbe dare una rilettura pregna di pathos e psicologismo epico ai canti popolari di frontiera e agli stornelli più tipici della tradizione rurale ("Oh Susannah", "Clementine"), ma dimentica - volontariamente o meno - una cosa fondamentale: questa operazione l'ha già approntata tramite tutto l'opus del periodo d'oro, dai suoi brani classici, al suono inconfondibile, all'immagine poetica, ai testi, ai titoli degli album, alle copertine.
Dal punto di vista prettamente musicale, la furia delle loro jam è diventata vera logorrea, che ha il diretto precedente proprio in Greendale, una forma di demenza senile che nei tardi Crazy Horse sembra ormai irreversibile.
Tra i tanti assi nella manica che aveva disposizione per rispettare la media del disco all'anno, il vegliardo canadese ha scelto quello più nobile, la sua storica backing band - con cui nel 2009 ha anche registrato un disco fantasma e già leggendario, Toast, tramite il quale ridà linfa a un'altra dimensione della sua arte, quella del materiale mai pubblicato - per una semplice, distensiva rimpatriata post-anni ruggenti. Primo disco di sole cover a quasi settant'anni d'età: pensione dignitosa.
Michele Saran, ondarock.it

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